Sezione 5

XXXII

Spettacolare, infine, è il sordo vortice che sembra tenere insieme la figura intera della Pandemia, nell’inseguirsi di due immani forze contrarie.

La prima forza. Il virus non è democratico. Il virus rafforza i potenti, disfa i poveri. Il virus non fa crollare le borse, ma devasta l’economia informale. Al cospetto del virus muoiono anche i ricchi, certo, ma vivono male soprattutto i poveri. Decine di milioni di persone stanno regredendo alla condizione di assistiti, il potere politico è tornato al centro del campo in una restaurazione fulminea che l’ha recuperato da un’agonia irreversibile. Tutta un’élite intellettuale è tornata a farsi ascoltare invece di essere archiviata. La rabbia sociale si è trovata disinnescata, confinata, silenziata.

Così la Pandemia finisce per stringere la morsa di un potere che stava perdendo la presa. Contiene un’energia che tende a fermare i tempi, a restaurare ciò che era decaduto. Sembra disegnata apposta per restituire una prospettiva mitica al dominio puro e semplice, uguale a se stesso: come per ridargli la narrazione che era andata perduta, e quindi la forza propulsiva, e in definitiva l’autorizzazione morale. È uno schema mitico che conosciamo da millenni: ogni potere sa che nulla lo rende forte come la capacità di presentarsi nell’aura mitica del salvatore, quando è il momento del pericolo, e al cospetto di un nemico.

La seconda forza. Contemporaneamente, il salto di fase della Pandemia toglie per così dire un battito alla pulsazione del potere. Sospende per un tempo lunghissimo la sequenza logica che faceva sembrare impossibile qualsiasi mondo che non fosse questo e in ciò scava un’apnea nel sistema. Spezza la catena dell’inevitabile, e inserendo esperienze inaudite, restituisce agli umani la capacità di pensare l’impensabile: non come gioco della fantasia, ma come tecnica di costruzione, come forma di razionalità. La cosa va compresa alla lettera, e letta a un livello molto pratico: nel crollo possibile di molte delle colonne che reggevano il sistema, si affaccia l’ipotesi che un collasso controllato, seguito da una ricostruzione con tecniche prima impensate, sia l’unico sistema per interrompere la degenerazione cronica del nostro edificio-mondo. In qualche modo, la figura mitica della Pandemia ridona legittimità, in modo tragico e quindi di altissima solennità, al principio per cui costruire è un gesto che parte dalla disponibilità a distruggere, e vivere è un’aspirazione che passa dalla capacità di morire. In questo senso rimette di fronte agli umani, con grande violenza, l’autentica figura dell’utopia: raschiandone via qualsiasi decorazione, e smontandone tutte le semplificazioni, la pronuncia nella sua forma più brutale e arcaica, al di fuori di qualsiasi galateo storico. In essa è scritto che l’unica terra dove edificare il mondo nuovo è quella su cui rovina il mondo vecchio: così ogni utopia cresce sulle macerie di un passato, ogni speranza inizia con una rinuncia, e ogni vita è il frutto di un lutto.

Davvero, fissando negli occhi la figura mitica, non è così difficile vedere quelle due forze. Il vortice del loro inseguirsi. È come se avessero scelto la Pandemia come pagina dove scrivere i propri nomi e campo di battaglia dove portare fino alla fine una faida a cui non si trovava soluzione. Forse è questa la cosa più importante da capire in ciò che abbiamo lasciato accadere, o addirittura voluto che accadesse: c’era uno scontro tra mondo vecchio e mondo nuovo che si trascinava da troppo tempo, e con regole di ingaggio che gli impedivano di scoppiare veramente. In una guerra di posizione logorante, se ne stava andando il tempo utile per rendere utile qualsiasi vittoria. Prima che fosse troppo tardi, un’inerzia inconfessabile sembra aver scelto un piano inclinato dove spingere tutto quanto verso una fine, qualsiasi essa sia.