Sezione 5

XXVII

E naturalmente montava ormai da tempo la necessità di sottoporre l’intelligenza novecentesca a un definitivo stress test, che ne scoperchiasse l’obsolescenza.

Tecnicamente, la Pandemia – ovvero la prima creatura mitica assemblata in era digitale – è stata governata integralmente da intelligenze novecentesche: una perfida dissimmetria. Non c’è da stupirsi se, pur nelle più diverse parti del mondo, quelle intelligenze siano più o meno approdate alle stesse soluzioni: a giocare erano tutti giocatori cresciuti alla stessa scuola, per così dire. Certo, si è potuto apprezzare qualche sfumatura diversa nello stile di gioco: ad esempio, là dove un certo machismo parapolitico ha provato strenuamente a negare che questa figura mitica avesse la forza che invece aveva, ma giusto per bullismo intellettuale, o narcisismo di casta; o là dove certi totalitarismi hanno cercato di dissimulare una figura mitica che interferiva con quelle da loro prodotte. Ma sostanzialmente, una Pandemia figlia dell’habitat digitale è stata governata da intelligenze novecentesche, in base a principi usurati e secondo logiche obsolete. Certo, un qualche timido uso del digitale è stato fatto. Ma non si è mai pensato digitale: non avrebbero d’altronde saputo farlo. Solo che la Pandemia è, invece, geneticamente digitale: nei modi, nella struttura, nel suo modo di evolversi, nella sua velocità, nella sua semplicità quasi infantile. Il viaggio della Pandemia – non quello del virus, attenzione – è stato in gran parte fatto su mezzi di trasporto digitali, che non sono mai semplici vettori: danno forma, impregnano di una certa logica, impongono format, stabiliscono delle priorità, fissano dei valori, trasmettono dati genetici. La sostanza materiale della Pandemia è quasi integralmente digitale. È una derivazione dalla materia prima dei videogames.

Abbiamo mandato a giocarlo dei Maestri di scacchi.

Cosa cercavamo? Probabilmente volevamo sottoporli a uno stress test difficilissimo, per vedere come andava a finire.

Se si prova a fare un bilancio adesso, che ancora nulla è finito, una cosa clamorosa la si può già comunque azzardare: sta vacillando una delle figure mitiche più forti prodotte dalla modernità, quella della scienza. Nell’imbarazzante confusione del sapere medico chiamato ad affrontare l’emergenza, chiunque può leggere un’obsolescenza metodologica che sembra ormai essere comune a tutti i saperi. A tramontare non è tanto il mito della scienza come sapere infallibile, quanto quello della scienza come sapere utile. Più la scienza rivendica la correttezza del proprio metodo, difendendone maniacalmente la necessità, più distoglie i riflettori dal vero problema: i processi, obsoleti, che reggono, come uno scheletro, il flusso di quel metodo. Saperi immensi, con accesso a quantità vertiginose di dati, riescono nell’incredibile risultato di essere scarsamente utili, o di produrre soluzioni con troppa lentezza, o di porsi le domande sbagliate. Non è che in campo economico, o sociologico, e perfino filosofico, le cose vadano meglio. Nella Pandemia, la scienza medica parla per tutte le altre, denunciando l’incapacità ormai cronica di scaricare a terra le immense intelligenze, umane e artificiali, di cui disponiamo. Se il sapere finisce a produrre retorica, risposte lente e semplice buon senso, qualcosa non va, e nella figura mitica della Pandemia c’è scritto che non andrà mai più. Siamo rimasti senza Sapere, perché ci siamo affidati a un solo sapere, quello scientifico, che si è arrotolato su se stesso, irrigidito da processi obsoleti e da schematismi inadatti al Game. O lo liberiamo al più presto da se stesso, dice la Pandemia, o diventerà fede pura, mistica: attesa messianica di un vaccino.