Sezione 5

XXIII

In moltissimi si è pensato: ma che follìa di vita facevamo, prima?

La figura mitica della Pandemia porta nel ventre, tra le altre cose, questa epifania, pronunciata con una chiarezza destinata a non risparmiare nessuno. Essa dice che era una follìa andare a quei ritmi, disperdere così tanta attenzione e sguardo, smarrire qualsiasi intimità con se stessi, scambiarsi corpi nevroticamente senza fermarsi a contemplare il proprio, vedere molto fino a raggiungere una certa cecità, conoscere molto fino a non capire più nulla. Nel ralenti a cui ha costretto l’intero mondo, la Pandemia ha tirato fuori fotogrammi, dal film delle vite, che non si potevano vedere: spesso contenevano il volto dell’assassino, o il volo dell’angelo. E nella costrizione all’immobilità ha spalancato quarte dimensioni che si erano abbandonate.

È indubbio che volevamo, e cercavamo, qualcosa di simile. Forse, tra le correnti di desiderio che hanno spinto quella figura mitica fino alla superficie del mondo con tanta violenza improvvisa, una delle più forti è stata proprio questa: il bisogno spasmodico di fermarsi. In questo senso, la Pandemia è stata veramente un urlo. Un urlo di fatica. Di ribellione. Il bambino quando piega le ginocchia e si lascia cadere perché non ce la fa più.

E infatti poi la ripresa – che fa parte ancora integrante della figura mitica – è un tornare strano, riottoso, più che altro dettato dalla necessità di rimettere in moto il giro del denaro. Ma con un’incrinatura nel senso delle cose – ineliminabile.